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Una bella rete antirazzista
di Silvia Dai Prà
da "il manifesto" del 13 Novembre 2002


Al Social Forum di Firenze un incontro tra le diverse organizzazioni europee che si battono contro la violenza negli stadi. Componente italiana e supporters inglesi d'accordo nel difendere il carattere popolare del tifo.
Ma le curve sono sbigottite dalla modernizzazione e dal carattere affaristico del calcio


Al Social Forum di Firenze si è parlato anche di ultras, o meglio, hanno parlato anche gli ultras. Football, Culture and Anti-Racism: questo il titolo di un incontro organizzato dalla rete Fare (Football against Racism in Europe) che ha unito prospettive diverse, quella inglese e quella italiana, quella ultras e quella intellettuale, avvicinate però dal desiderio di difendere il carattere popolare del tifo e di emancipare i gruppi ultrà dall' immagine che solitamente li accompagna -violenti, razzisti ed antisociali.
Un obiettivo non semplice, questo, e che necessita una battaglia su due fronti: contro gli elementi violenti all'interno della curva ma anche contro la modernizzazione del calcio e la repressione istituzionale. Tanto in Italia quanto in Inghilterra, infatti, i provvedimenti presi per limitare le violenze e il razzismo negli stadi portano verso la distruzione del tifo organizzato. In Italia con la legge 377/2001 dell'ottobre dell'anno passato, in Inghilterra con il Football Disorder Act di Tony Blair del 2000, la tendenza è stata quella di criminalizzare a priori il mondo ultrà, rendendolo, al pari dei presunti terroristi e degli «stati canaglia», una categoria sociale tendenzialmente pericolosa su cui esercitare una repressione preventiva. In parole povere: basta fare parte di un gruppo di tifo organizzato per vedersi restringere le proprie libertà individuali, senza alcuna prova o possibilità di difendersi. E inoltre basta l'infiltrazione di uno sparuto gruppo di violenti perché la repressione si abbatta su tutta la curva, con il beneplacito delle istituzioni, dei media che trasmettono un'immagine unica di ultrà e dell'opinione pubblica. Se ci si pensa un attimo, tutto questo ricorda quello che è successo a Genova. L'incontro di Firenze, a cui hanno preso parte Carlo Balestri, coordinatore del Progetto Ultrà, Francesco Biopicchi, di Afrogrifo, Piara Powar dell'associazione inglese Kick Racism out of football e Mike Marquisee, scrittore inglese e attivista di Stop the War, ha voluto esplicitamente dire che non è questa la direzione da prendere per sconfiggere razzismo e violenza nelle curve. Dopo le ennesime misure repressive e la sempre più invasiva militarizzazione degli stadi (nel 1994 si impiegavano ogni domenica 5.500 uomini nel servizio pubblico allo stadio, oggi 10.500), il risultato è che le violenze si sono spostate all'esterno della curva, e hanno luogo più tra polizia e tifosi che tra bande opposte di ultrà.

Il Progetto Ultrà, nato da qualche anno in seno alla Uisp, si muove in due direzioni: iniziative antirazziste e di solidarietà, ma anche difesa del tifo organizzato e della cultura popolare legata allo sport. In questo ambito è stata lanciata negli scorsi mesi la campagna «Noi la Faccia non la mettiamo», un' iniziativa con tanto di raccolta firme contro il servilismo del calcio alla logica dei palinsesti televisivi. Inoltre, il tifo organizzato ha dato vita alla Settimana antirazzista, a cui hanno preso parte 200 gruppi ultrà di tutta Italia, e, dal 1997, ai Mondiali antirazzisti, un torneo misto di calcio tra tifosi e migranti.

Consapevoli della presenza di elementi razzisti nelle proprie curve, gli ultras pensano che iniziative di recupero sociale siano l'unica possibilità per salvare alcuni giovani da una realtà di ignoranza, qualunquismo ed emarginazione. Ricordandosi anche però che con Fini, Bossi e Borghezio al governo, ridurre il problema del razzismo italiano all'interno dello stadio può sembrare, usando un eufemismo, riduttivo. L'immagine di ultrà che esce dall'incontro di Firenze è quasi inedita: ed è strano accostare la figura del vandalo razzista normalmente accettata a questi gruppi di tifosi che parlano di adozioni a distanza di bambini palestinesi. Lo stesso si può dire della platea, composta da tifosi di tutte le nazioni che alla fine hanno voluto, in un lungo dibattito, raccontare le proprie realtà -da Parigi a Montevarchi. Tutti con lo stesso desiderio: mantenere viva la propria passione, senza essere trasformato nel «consumatore sportivo» made in Usa, quello con il cappellino in testa e i pop corn in mano, che legge ciò che deve fare e dire su degli appositi cartelloni luminosi, di fronte a un calcio che non è più divertimento e aggregazione popolare, ma un prodotto industriale di cui fruire in comodi stadi ultracostosi o in alienanti salotti con pay-tv.

E, alla fine dell'incontro, resta addosso la solita perplessità di fronte allo scollamento tra realtà e stereotipi mediatici. La stessa avvertita da tutti coloro che hanno preso parte a un pacifico Fse, costretti nel frattempo ad ascoltare i media e i politici che dipingevano scenari apocalittici.


Un gol contro l'indifferenza
di Gabriella Greison
da "il manifesto" del 21 Novembre 2004

Solo sfiorato dalle dichirazioni razziste del ct spagnolo Luis Aragones su Thierry Henry, il calcio francese fa i conti con la xenofobia di tifosi e dirigenti.
I giocatori almeno si schierano: ieri sono scesi in campo con magliette di protesta


Hanno Le jounal de football, Le foot-lyon e Le foot-st.etienne, France football-mardi e France football-vendredi, Foot reveu, Le foot- hors serie, But! Passion du foot, Planet foot, Planet foot plus, Foot star, So foot, Foot transfers, Tele foot, Tele foot reveu, Tout le passion (e tra parentesi Foot, visto l'azzardo nel titolo). E poi ci sono anche le riviste patinate specifiche di ogni club naturalemnte. Eppure ogni volta che ci capita di confrontarci con i francesi sembra sempre che la loro passione per il calcio sia quanto la nostra per il curling. Bar che trasmettono le partite deserti. Negozi con oggettistica da stadio inesistenti. Ma quel che è peggio, risposte superficiali su problemi come razzismo e violenza negli stadi, quasi a mostrare indifferenza sull'agomento. Quando alcune settimane fa l'allenatore della Spagna, Luis Aragones, apostrofò Tierry Henry come «quel negro di merda» (parlava a un suo giocatore durante gli allenamenti ma fu sentito da tutti i giornalisti presenti) a scatenare il caso non fu la stampa francese (che pure ha nell'attaccante dell'Arsenal il simbolo del calcio transalpino insieme a Zidane), bensì quella inglese sempre molto attenta al tema del razzismo. Eppure anche in Francia, dove la nazionale dei bleus è composta quasi totalmente di giocatori di colore, il problema della xenofobia da pallone è tutt'altro che risolto. E a muoversi su questo tema è stata negli ultimi giorni l'associazione dei calciatori professionisti francesi (UNFP), che ha organizzato una protesta in seguito agli incidenti verificatisi di recente. Ieri sera, in occasione dell 15° giornata di Ligue 1, i calciatori e gli arbitri della massima serie francese sono entrati in campo con magliette che recavano lo slogan «No al razzismo» e «No alla violenza». La prossima settimana faranno lo stesso i calciatori di seconda divisione. «Lo sport è fatto per unire gli uomini - hanno scritto quelli del sindacato dei pedatori - qualunque siano le loro origini, religioni e opinioni politiche». Sabato scorso, i giocatori colored del Bastia Pascal Chimbonda e Frank Matingou sono stati insultati all'uscita dello stadio da alcuni tifosi poco soddisfatti della loro prestazione, in seguito alla sconfitta interna per 3-0 rimediata contro il Saint-Etienne. L'auto su cui viaggiavano i due giocatori è stata anche danneggiata. Pochi giorni prima l'autobus dell'Olympique Marsiglia diretto al Parco dei Principi di Parigi per la sfida con il Paris Saint germain era stato bersaglio di un fitto lancio di oggetti, incluse barre di ferro, che avevano distrutto i vetri terrorizzando i giocatori. Questi episodi hanno scioccato la comunità sportiva francese. Il ministro dello sport Jean-Francois Lamour ha parlato di «comportamento inqualificabile».

Eppure non tutti da queste parti vedono il problema allo stesso modo. Il presidente del Bastia per esempio, il signor Louis Muntari, che a proposito delle minacce subite dai suoi giocatori ha avuto il coraggio di dichiarare alla radio quanto segue: «Se devo essere amareggiato? Al massimo sono triste perchè la mia squadra ha perso 3-0. Io commento solo quello che vedo in campo. Quello che mi preoccupa di più è il 14° posto in classifica». E i suoi ragazzi? «Si, lo so. Il club ha fatto un comunicato ufficiale e condannato quegli atti. Io sostengo i miei giocatori naturalmente. Ma si è trattato di una decina di ragazzetti (erano una trentina, ndr), una bazzeccola rispetto ai 5000 spettatori presenti allo stadio. Sono convinto che se lo Sporting Club Bastia vincerà i prossimi incontri non succederà più. Basta vincere e tutto si tranquillizza. Se succederà ancora vedremo. Non sono un indovino comunque». Secondo la Commissione nazionale dei diritti dell'uomo su 92 casi di razzismo e xenofobia gravi avvenuti in Francia nel 2003 ben 56 sono avvenuti in Corsica. «Non voglio rispondere a questioni che vanno al di fuori del quadro sportivo. Non mi chiedo mai cosa succede all'interno dell'intera società corsa. Non è il mio compito. Sono presdiente di un club, non il sindaco della città. Cosa centra il calcio con tutto questo? Come società abbiamo condannato quegli incidenti. Questo sarebbe aver paura?».

La reazione è più o meno la stessa che si respira tra le persone. Nessuno per strada qui sembra essere interessato al calcio, e tanto meno ai problemi di razzismo e violenza. Tanto questa è la settimana del Beaujoulais.




Eduardo Galeano
"UTOPIA"

 




FINO A QUANDO ?

 


CHI LASCIA IL SUO PAESE NON E' UN PROBLEMA...CHI LASCIA IL SUO PAESE HA UN PROBLEMA... (I. Fossati)

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